di Niccolò Della Bianca
Head of Communications & Media Relations, MOTUS-E
2448 MIGLIA DI SOGNI E SPERANZE
È stata la strada della speranza per milioni di americani. La Route 66 ha segnato la storia a stelle e strisce solcando, tra lande desolate e urbanizzazione massiva, Illinois, Missouri, Kansas, Oklahoma, Texas, New Mexico e Arizona prima di arrivare in California.
Il primo a cantarla fu John Steinbeck, l’Omero della Grande Depressione, che nel romanzo “Furore” la definì “Mother Road”, la strada madre, uno dei suoi attuali soprannomi. La strada che attraversa in diagonale gli States è stata muta protagonista della migrazione interna di migliaia contadini americani, costretti dalla penuria dei raccolti ad abbandonare le pianure inaridite del Midwest per riversarsi lungo quella via polverosa, in un esodo dai toni biblici che ha come meta agognata la California.
Il vero sviluppo della Route 66 arriva però solo dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando una nuova ondata di migrazione interna interessa la rotta verso la California: nuovi sogni e nuove speranze alimentano la ripresa dei viaggi in macchina, in autobus o in autostop, verso quella terra promessa di lavoro e fortune. Sono gli anni in cui Jack Kerouac scrive il suo capolavoro, “Sulla strada”, gli anni in cui la nascita del rock’n’roll e della Beat Generation contribuiscono a nutrire il mito della Route 66 come metafora stessa del viaggio.


AUTOMOBILI, ASFALTO E DINERS: NASCE IL MITO
In questo periodo, lungo i quasi quattromila chilometri di strada, compaiono i primi “diners”, le iconiche stazioni di servizio rimaste praticamente intatte dagli anni Cinquanta e Sessanta. Compaiono i primi motel, le grandi scritte luminose sulle insegne, i racconti e le storie che si intrecciano tra quelle stanze, la solitudine, le parole scambiate con qualche occasionale compagno di viaggio, le Cadillac dai colori pastello parcheggiate sull’asfalto che brucia.
Negli anni Novanta, poi, la Route 66 viene inserita nel patrimonio paesaggistico degli Stati Uniti e le viene attribuito il titolo di “Historic”, tanto da diventare uno dei simboli del Paese nordamericano. Il mito della Route 66, non più connesso a storie di emigrazione, speranza o riscatto, rivive ogni anno nei milioni di turisti che ne affollano il percorso, attraversandola in motocicletta o magari su una vecchia decappottabile. Sì, perché le automobili sono le attrici protagoniste di questo palcoscenico naturale. Nel 1926, quando la Route 66 fu aperta al traffico, le automobili che solcavano la polverosa strada che collega Santa Monica a Chicago, erano ancora poche, ma già nel 1930, quando la Route 66 venne completamente asfaltata, le automobili negli States erano quasi 20 milioni.
.


UN’AUTOSTRADA “ELETTRICA”
Gli americani si adattano molto facilmente al cambiamento, una volta convinti che il cambiamento è vantaggioso, oltre che necessario. Il progressivo sviluppo delle tecnologie automotive (diciamo da Ford in poi) negli Stati Uniti, unitamente ad una geniale strategia di marketing pubblicitario, ne ha permesso la diffusione su larga scala: il sogno di ogni lavoratore americano era l’auto, si guardava quella del vicino per averla più bella, con lo stereo e i sedili in pelle, magari per portarci la fidanzata al Drive-In il sabato sera. Questa rivoluzione, la rivoluzione di una nuova forma di mobilità, può accadere ancora oggi con lo sviluppo di massa dell’auto elettrica. Ne sono convinti anche il giornalista Craig Welch e il fotografo David Guttenfelder della prestigiosa rivista americana National Geographic che hanno fatto un viaggio in auto elettrica sulla Route 66, attraversando distese pianure desolate e visitando luoghi simbolo dell’innovazione “green” made in USA. Il loro viaggio a zero emissioni li ha portati, in realtà, fino a Washington D.C., in un coast-to-coast documentato con meravigliose fotografie sul numero speciale del magazine dedicato all’Earth Day.
INDIANI NAVAJO, TRUCKS ELETTRICI ED ENERGIE RINNOVABILI: LA “GREEN” ROUTE 66
Il reportage di Welch e Guttenfelder è, come ogni reportage di viaggio che si rispetti, pieno di incontri e racconti che intrecciano storia locale e riconversione “green” dell’economia statunitense.
C’è Russell Benally, un indiano Navajo che i giornalisti incontrano su una collina rocciosa fuori LeChee, in Arizona, sede di piccola comunità Navajo vicino al lago Powell. Quando incontrano Russell, in lontananza, stagliata sul sole morente, dalla collina si vede ancora la più grande centrale a carbone ad ovest del Mississippi, che impiegava centinaia di indiani Navajo. Assomiglia ad una grande nave spiaggiata. Un impianto vecchio di 45 anni, che aveva prodotto elettricità ogni anno per rifornire due milioni di case a Los Angeles fino al 2016, quando venne spenta perché non poteva più competere con gas e fonti rinnovabili a basso costo.
La chiusura della centrale a carbone si inserisce in una tendenza che sembra inarrestabile negli Stati Uniti come nel resto del mondo. Dal 2010 ad oggi più di 500 impianti a carbone sono stati chiusi solo negli States. Nel 2019 il consumo di carbone negli Stati Uniti è stato il più basso degli ultimi 40 anni; ad aprile, per la prima volta, le energie rinnovabili hanno generato più elettricità del carbone. A pochi chilometri da LeChee, a Page in Arizona, Welch e Guttenfelder parcheggiano la loro Tesla Model S a Horseshoe Bend, una pittoresca ansa del fiume Colorado. Centinaia di visitatori affollano quella vista sul fiume. Dopo la chiusura della centrale, molte famiglie Navajo si sono reinventate come guide turistiche e stanno aprendo ristoranti. La centrale a carbone non c’è più ma, in compenso, sono tornati i turisti a LeChee.

Welch e Guttenfelder si dirigono poi nel Kansas occidentale, dove trascorrono una giornata a Greensburg, 790 anime. Nel 2007 un tornado ha spazzato via oltre il 90 percento di questa cittadina agricola, uccidendo 11 persone. Quando venne il momento della ricostruzione, si decise di far rinascere Greensburg come borgo sostenibile, facendo fede al suo nome, “Green Burg”. Oggi la nuova scuola di Greensburg utilizza il riscaldamento solare e geotermico e la comunità consuma l’energia elettrica generata da impianti eolici. Greensburg oggi è 100% “carbon free”.
C’è poi l’incontro con Robert “RJ” Scaringe, il fondatore di Rivian, azienda che costruisce trucks e pick-up elettrici. Rivian ha recentemente stipulato un accordo con Amazon per 100.000 camion per consegne a zero emissioni entro il 2030. Negli USA da Tesla a Ford fino addirittura all’Harley-Davidson, tutti sono entrati nella corsa all’oro dell’elettrico. E Scaringe, con Rivian, scommette tutto su questo mercato. Scaringe – si dice nel reportage – si aspetta che i propri figli, tutti di età inferiore ai cinque anni, non conosceranno mai un mondo “in cui le prese di ricarica non siano, semplicemente, ovunque”.
Alla fine del viaggio, dopo aver percorso quasi quattro mila chilometri e aver toccato con mano la metamorfosi sostenibile dell’America più profonda, la domanda di fondo che ci si pone è questa: quanto siamo vicini alla dismissione totale dei combustibili fossili in America? Leggendo le parole e ammirando le fotografie di Welch e Guttenfelder sembra davvero che la strada verso la rivoluzione green sia segnata e la strada, come scrive Kerouac, è vita. È ora di andare fino in fondo.