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La diffusione del Coronavirus dipende anche dalle condizioni atmosferiche?

di Luca Mercalli
Climatologo e Presidente della Società Meteorologica Italiana

In questi giorni di emergenza sanitaria legata alla rapida diffusione del nuovo coronavirus SARS-CoV-2, responsabile dell’infezione respiratoria Covid-19, da più parti ci si domanda se il dilagare dell’infezione – oltre che a viaggi e commerci internazionali e ai comportamenti individuali – sia legato anche all’andamento del tempo atmosferico e alle caratteristiche climatiche delle varie regioni del mondo, e se mostrerà fluttuazioni stagionali simili a quelle degli altri virus influenzali che tendono a esplodere d’inverno (aiutati anche dalla concentrazione delle persone in luoghi chiusi) e a estinguersi nei più caldi e soleggiati mesi estivi.

Qualsiasi conclusione è al momento prematura e la cautela è d’obbligo (lo stesso Ministero della Salute italiano non si sbilancia in merito), ma osservando la situazione dei contagi documentati nel mondo, al netto di probabili disomogeneità nei metodi e nell’efficacia delle rilevazioni, si nota intanto come le regioni al momento più colpite – Cina, penisola coreana, Iran, Italia, Spagna, Francia, Stati Uniti nord-occidentali… – si concentrino lungo una fascia latitudinale compresa tra 30° e 50° Nord, da Est a Ovest, in zone caratterizzate da condizioni termo-igrometriche relativamente simili nelle prime settimane del 2020 (temperatura medie tra 5 e 11 °C e umidità relativa media tra 47 e 79%).

E’ quanto suggerisce un tentativo di correlazione tra clima e contagi proposto nello studio “Temperature and latitude analysis to predict potential spread and seasonality for COVID-19”, sottoposto a revisione sul Social Science Research Network, di un gruppo di ricercatori coordinato da Mohammad M. Sajadi (Institute of Human Virology, University of Maryland School of Medicine, Baltimora). L’obiettivo è aprire la strada a una eventuale previsione della diffusione dell’epidemia nelle prossime settimane e mesi anche su base geografica e climatica.

Seguendo lo spunto offerto da questo articolo, abbiamo provato a riportare in un grafico le temperature medie di alcune località rappresentative delle zone più (o meno) colpite dal contagio.

Considerando il periodo 20 gennaio – 20 febbraio 2020 in cui l’epidemia si è diffusa nella provincia cinese di Hubei, a Wuhan la temperatura media è stata di 6,8 °C; nell’intervallo 10 febbraio – 9 marzo 2020, che ha visto il diffondersi del contagio al di fuori della Cina, si sono registrate medie termiche di 5,3 °C a Seoul, 6,3 °C a Berlino, 7,9 °C a Teheran, 7,8 °C a Piacenza, 8,6 °C a Parigi, 6,0 °C a Seattle… tutte città in regioni caratterizzate da importanti manifestazioni dell’infezione.

In nessuna di queste le medie giornaliere sono scese sotto 0 °C, salvo a Seoul per alcuni giorni in febbraio, e questo potrebbe indicare che condizioni di gelo prolungato limitano la propagazione virale.

In effetti grandi città boreali più fredde, caratterizzate pure esse da alta densità abitativa e intensi scambi internazionali potenzialmente favorevoli al contagio, nonché da sistemi sanitari in grado di censire con una certa efficacia le persone infette, non mostrano situazioni altamente critiche, come ad esempio Mosca, per quanto reduce da un inverno di mitezza record (media 10 febbraio – 9 marzo pari a 2,3 °C), o Toronto (media -1,4 °C).

Ma, all’opposto, soprattutto il caldo potrebbe ostacolare la diffusione del virus, che ad oggi si è scarsamente esteso sia nelle regioni tropicali ed equatoriali, sia nell’insieme dell’emisfero australe, dove sta terminando l’estate.

Uno studio sulla pandemia di SARS del 2003 (Chan et al., 2010) ha dimostrato che i coronavirus tendono a inattivarsi a elevate temperature e umidità dell’aria.

A risultati analoghi è giunta una recentissima ricerca dell’Università Beihang di Pechino (High Temperature and High Humidity Reduce the Transmission of COVID-19, sempre sul Social Science Research Network) condotta confrontando dati meteo e diffusione del virus in cento città cinesi nelle fasi iniziali dell’epidemia (21-23 gennaio 2020): i contagi paiono ridursi all’aumentare di temperatura e umidità relativa, come noto per le altre influenze.

Così in India: a Calcutta media di 23,6 °C e solo poche decine i casi in tutto il subcontinente, numero che tuttavia soffre ragionevolmente di sottostima date le precarie condizioni sanitarie del Paese.

Per comprendere meglio la possibile stagionalità sarà interessante osservare l’evoluzione dei casi nell’emisfero australe all’arrivo dell’inverno (da giugno in poi).

Anche in Italia, il virus non esplode nel sud più caldo.

La distribuzione regionale dei contagi sembrerebbe alimentare la possibilità che a SARS-CoV-2 il caldo non piaccia: per ora, e per fortuna, la diffusione della malattia si mantiene infatti di gran lunga inferiore al Centro-Sud, dove nel mese di marzo le temperature medie sono state di 10,8 °C a Roma-Fiumicino, 11,0 °C a Bari-Palese e 13,8 °C a Palermo-Punta Raisi, rispetto agli 8-9 °C della Valpadana.

Ovviamente anche in questo caso la prudenza è d’obbligo: si tratta di osservazioni preliminari che andranno confermate o meno dagli eventi successivi.

Se si osservano i dati della Spagna (medie di 11,3 °C a Madrid e 13,5 °C a Barcellona) e la rapidissima propagazione del contagio nel Paese iberico, la connessione tra temperature miti e minor numero di casi osservati appare meno evidente (anche altri fattori possono essere implicati nella diffusione).

Molte domande restano aperte, in particolare: il coronavirus sparirà dunque dal nostro emisfero in estate come fanno i ceppi virali della comune influenza? Si ripresenterà nell’inverno 2020-21, dando tuttavia il tempo, si spera, alla comunità bio-medica di individuare un vaccino o una cura? Quali saranno eventuali zone-rifugio per il virus? Scomparirà definitivamente?

Il fenomeno – oltre che nuovo per molti aspetti sia virologici sia umani (impatto di una pandemia su una società e un’economia iper-globalizzate e già alle prese con altre precarietà ambientali, dai cambiamenti climatici, alla degradazione di ecosistemi, alla sovrappopolazione) – è estremamente complesso a causa delle molteplici interazioni tra fattori ambientali, biologici, climatici e antropici (misure di contenimento e prevenzione, comportamenti individuali e collettivi…).

I tentativi di previsione, che muovono i primi passi, coinvolgono l’impiego di modelli matematici integrati che mano a mano verranno testati e “tarati” dalla comunità scientifica in base ai dati raccolti.

Gli studi proseguono e, come conclude il giornalista e scrittore americano Jon Cohen, “il tempo dirà”…

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